Mons. Spreafico: «Rispondiamo al male con il bene!»

Il vescovo Ambrogio Spreafico ha guidato, nella serata di martedì 12 marzo nella chiesa di San Paolo Apostolo a Frosinone, un momento di preghiera fortemente voluto dopo quanto accaduto a Frosinone sabato scorso e ad Anagni, sempre nei giorni scorsi. In tanti si sono ritrovati nella chiesa di viale Madrid, nonostante il tutto fosse stato organizzato neppure 24 ore prima, grazie al passaparola e alla notizia diffusa sui social. “Sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi”: questa la frase, presa dal Salmo 122 che poi è stato recitato a cori alterni, scelta per dare un titolo alla preghiera corale, proseguita con la declamazione del Vangelo (il passo di Luca 13, 1-5, in cui Gesù risponde peraltro al destino dei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise) e quindi la riflessione del vescovo Spreafico: «Il mondo è pieno di violenza – ha esordito il vescovo – e davanti alla violenza tante volte, oltre a condannarla come è giusto che sia e a a perseguire coloro che la compiono attraverso le persone preposte a farlo e che lo fanno bene, noi  non facciamo niente. Ma poi ci siamo proprio noi, uomini e donne che vivono in questo mondo e in questa terra amata. E allora: basta condannare e giudicare? E’ facile essere giudici, ma è un tipico modo per allontanare il male. Ma il male resta! Noi invece dimentichiamo che il male esiste. E allora non possiamo restare indifferenti come spesso accade. Chi si ricorda dell’Afghanistan o della Siria? A malapena lo facciamo con la guerra in Ucraina, quando papa Francesco invoca la pace e magari si riaccende il dibattito. Ecco, noi siamo così: basta che il male non ci tocca e sono a posto. Ma dimenticare e far finta di niente – ha rimarcato con tono ancora più deciso monsignor Spreafico – non è giusto! Bisogna fare il bene, perché altrimenti questo mondo diventa un inferno. Nelle nostre città, poi, la violenza non è solo quella dell’altra sera; in via Aldo Moro non è che non succedono mai risse o atti di bullismo. E lo dico non per parlar male, ma perché bisogna essere vigili. E riandare alle parole di Gesù che dice: convertitevi! Per questo siamo qui – ha aggiunto Spreafico rivolgendosi ai presenti – perché dobbiamo cambiare noi stessi, rispondere al male con il bene! Il male è furbo: se lo lasci entrare, poi ti prende e non ti molla più, come la droga che gira, l’alcool, il gioco d’azzardo…». Il vescovo ha quindi proseguito sottolineando l’importanza della preghiera «che ci libera dall’essere solo di noi stessi, ci fa guardare in alto: Dio è luce, speranza, tenerezza, gentilezza, comprensione. La preghiera ci rende diversi: ecco il cambiamento! Ci uniamo in preghiera e siamo forza di bene, siamo luce del mondo, sale della terra. Sì. Siamo così, e dobbiamo crederci! Chiediamo al Signore – si è avviato a concludere il vescovo Spreafico  – di renderci pacificatori, luce per gli altri. Chiediamo che ci renda uomini e donne, fratelli e sorelle pacificatori. Perché il Signore non ci abbandona mai, non abbandona la nostra città e questa terra amata». Il momento di preghiera, accompagnato da una serie di canti, è poi proseguito con la recita del Padre nostro e, prima della conclusione, della “preghiera semplice” attribuita a San Francesco, con queste e altre parole (“Dove è tristezza, che io porti la gioia; dove sono le tenebre, che io porti la luce”) a risuonare nel silenzio carico di raccoglimento, per invocare ancora una volta la richiesta di “pace nelle tue mura”. di Igor Traboni

Il Vescovo agli operatori pastorali: «Unità e comunione»

Ecco il testo completo dell’intervento di monsignor Ambrogio Spreafico per l’incontro interdiocesano degli operatori pastorali, tenutosi nella chiesa di Santa Maria del Carmine, a Tecchiena, domenica 25 febbraio 2024:  ——————————————————————– La Chiesa come assemblea Cari amici e amiche, come ormai si usa dire oggi, siamo qui nel tempo di Quaresima per aiutarci a vivere la nostra vita cristiana in questo mondo complesso e difficile, dove sembrano vincere le guerre e la violenza, ma insieme l’assuefazione che ti fa pensare che tanto tu non puoi mai far niente. A parte il lamento e la recriminazione, dipende sempre tutto dagli altri. All’inizio della quaresima abbiamo ascoltato un invito di Dio attraverso il profeta Gioele, che non viveva certo in un tempo migliore del nostro. “Ritornate a me”, ripete il Signore. E per ritornare dice al profeta: “Convocate un’assemblea”, un popolo, una comunità. “Ritornare” è cambiare e convertirsi, come si dice di solito. Ma convertirsi è tornare a Dio anzitutto. Ma, sottolinea il profeta, tornare insieme, come popolo, come comunità. Ma noi ci crediamo che la Chiesa è comunità, popolo, e non un insieme di individui, in cui ognuno fa la sua strada, che si incrocia con quella degli altri perché almeno ogni tanto, forse la domenica si incontra con quella degli altri? Siamo in un mondo di io. Il Covid lo ha evidenziato, ci ha abituato a stare da soli, a connetterci on line, ma non nella vita. E così spesso si continua. Cari amici, per sua natura, per fondamento, ogni cristiano appartiene a un “noi”, non è mai solo un individuo che cammina da solo. Questo è già evidente nell’esperienza del popolo di Israele come è narrata dalla Bibbia, poi fatta sua da Gesù di Nazareth e dalla Chiesa nascente. Israele si concepisce come popolo, come assemblea, come insieme di individui che condividono una fede e di conseguenza un’etica del vivere, che diventa anche un costituirsi particolare all’interno del mondo. Per l’Israele della storia ciò non ha mai significato l’identificazione con un particolare modello giuridico e politico: si è passati da una unità di tribù senza un governo unico (i giudici) alla monarchia (Davide…), all’assenza di qualsiasi espressione politica unitaria e indipendente (la diaspora), per poi giungere ai giorni nostri a uno stato, ma anche a un popolo che si riconosce nella dispersione dei popoli come partecipe di un’unità legata all’origine, solo in parte alla fede e a un’etica comune. Era tanto forte il senso di appartenenza e di interdipendenza che un profeta del VI secolo a.C., Ezechiele (cap. 18), dovette intervenire per affermare la responsabilità individuale di fronte al male commesso, per evitare che la colpa di un delitto fosse attribuita non all’individuo ma a tutta la sua famiglia. E’ la stessa convinzione che Gesù combatte nel racconto giovanneo del cieco nato in Giovanni 9. Quest’idea fortemente assembleare del vivere insieme dei credenti nel Dio di Israele contiene una verità affermata dalla Bibbia fin dall’inizio: la necessità del genere umano di concepirsi, e conseguentemente di vivere, come individui interdipendenti l’uno dall’altro. Il racconto di Caino e Abele, collocato proprio nei primi capitoli del libro sacro, costituisce un paradigma di questa necessità assoluta, perché il venir meno ad essa conduce a una violenza omicida che mette in pericolo il progresso stesso dell’umanità. Per la Bibbia non esiste un soggetto del tutto indipendente e quindi staccato dalla collettività. Lo stesso avvenne fin dall’inizio dell’attività di Gesù, che costituì un gruppo di uomini che lo seguivano stabilmente formando una comunità. Questa dimensione viene descritta come fattore essenziale delle prime comunità cristiane soprattutto negli Atti degli Apostoli. Il termine koinonia, comunione, ne è l’espressione compiuta. La Chiesa si costituisce così come una koinonia di uomini e donne che fanno riferimento a un unico Maestro e Signore. Atti 2,42-47 descrive in maniera concreta il senso della “comunione” della prima comunità di Gerusalemme, modello di ogni Chiesa locale, ma anche dell’insieme della Chiesa universale. .…Joseph Ratzinger scriveva in un articolo “La Chiesa «Communio»”: “In quest’unico testo (At 2,42) si delineano così i numerosi livelli della communio cristiana, che ultimamente rimandano a un’unica e identica comunione: la comunione con la parola di Dio incarnata, la quale mediante la sua morte ci rende partecipi della sua vita e ci vuole così condurre anche al servizio reciproco, alla comunione visibile e concreta” (in: Fede, ragione, verità e amore. La teologia di Joseph Ratzinger, un’antologia a cura di Umberto Casale, p. 342). La comunione ha un fondamento teologico, che poi si esprime, proprio per questo fondamento, come comunione tra uomini e donne. La koinonia è chiamata a diventare comunione di beni. I sommari del libro degli Atti (2,42-47,4,32-35; 5,12-14) non puntano sul distacco dai beni materiali o su un ideale di povertà. Invece, puntano sulla condivisione: se si condivide quello che si ha non è per essere povero, ma perché non ci siano poveri nella comunità. La koinonia prende il volto concreto quando c’è una condivisione che assicura a ciascuno quello di cui ha bisogno. Non esiste una comunità degna di questo nome se gli uni vivono nell’abbondanza mentre che gli altri passano la fame.  La comunione come solidarietà e condivisione Nella comunione cristiana si vive perciò la solidarietà, soprattutto a partire dai membri più bisognosi. L’apostolo Paolo descrive molto bene l’appartenenza a un solo corpo, affermando che proprio le parti “del corpo che sembrano più deboli, sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto” (1 Cor 12,22-23). Così nella comunione della Chiesa l’attenzione e la sollecitudine per i poveri ha un innegabile primato, che già troviamo nei Vangeli e che Giovanni XXIII esplicitava in quella frase famosa: “Chiesa di tutti, e particolarmente dei poveri”. La ben nota “opzione per i poveri”, nata in comunità cristiane che contestavano la ricchezza interna ed esterna e chiedevano giustizia, è in verità parte integrante e necessaria del modo di vivere del cristiano. Negli Atti degli Apostoli la “comunione” si esprime anche nel fatto che “tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni

Il vescovo pellegrino a piedi alla Santissima: «Camminiamo insieme»

Oltre duemila persone hanno partecipato, nella mattinata di venerdì 16 febbraio, al pellegrinaggio al santuario della Santissima Trinità, in occasione della festa dell’Apparizione, unico giorno in cui il sacro speco, chiuso da inizio novembre e maggio, riapre ai fedeli. In molti sono saliti a piedi da Vallepietra, guidati dal vescovo Ambrogio Spreafico, per un pellegrinaggio che è iniziato per l’appunto nella chiesa del piccolo borgo, dove il vescovo è stato accolto alle 7 del rettore del santuario e parroco di Vallepietra, monsignor Alberto Ponzi, e dal sindaco Flavio De Santis. «Ci tenevo tanto ad essere qui con voi, a farmi pellegrino con voi – ha detto il vescovo in un breve saluto prima della benedizione ai fedeli già radunati in chiesa – ed essere pellegrini vuol dire proprio questo: imparare a camminare con gli altri nella vita; durante un pellegrinaggio ci aiutiamo, ci sosteniamo; certo, ognuno ha il suo passo, ma nel cammino siamo sempre pronti ad aiutare gli altri. E non si va dove ognuno vuole, ma in questo caso insieme verso la Triniità». E così è stato: un fiume di gente ha quindi preso le mosse dalla bella piazzetta del paese, per inoltrarsi nei vicoli del borgo, quindi sfiorare le ultime case del paese, i campi coltivati, qualche cavallo e un asinello, il piccolo cimitero, un antico molino, zigzagando tra il Simbrivio che qui scorre, prima di gettarsi più a valle nell’Aniene. Così camminando, è stato anche recitato il Rosario, prima dell’ascesa vera e propria al santuario, dove alle 10.30 è stata celebrata la Messa, presieduta da Spreafico e con una decina di sacerdoti provenienti anche da diocesi limitrofe e pure dall’Abruzzo, alla testa di altrettante “compagnie” di fedeli. «E’ bello fare il pellegrinaggio in questo luogo dove veramente c’è il Dio unico in tre persone», ha detto all’inizio il vescovo di Anagni-Alatri e Frosinone-Veroli-Ferentino. Ringraziamo il Signore che ci aiuta a stringerci attorno all’altare, ad essere una comunità di fratelli e sorelle, anche con la grazia di Dio del silenzio, in un mondo dove le chiacchiere si sprecano». Nel corso dell’omelia, e prendendo spunto dalla lettura di Isaia appena declamata, Spreafico ha fatto riferimento al tempo difficile in cui viviamo, dove anche oggi «ci sono pochi ricchi e tanti poveri, in un mondo profondamente ingiusto. Quanta gente porta dei pesi e noi non ce ne accorgiamo? Gli anziani delle Rsa, i malati, quelli che vivono da soli. Ma abbiamo mai bussato alla porta del vicino che non vediamo da giorni, invece di giudicarlo?». Spreafico ha quindi invitato i presenti a vivere la Trinità «in un mondo che dovrebbe essere di fratelli. E allora, ognuno di noi può costruire un mondo migliore, però finiamola di lamentarci, di svegliarci la mattina e ce l’abbiamo sempre con tutti. No, la mattina diciamo una preghiera, fermiamoci almeno un minuto con il Signore e poi quando usciamo facciamo un sorriso al vicino che magari ci sta poco simpatico. Questi si meraviglierà, ma l’avremo “convertito” ad una nuova umanità». Sul senso del pellegrinaggio , il vescovo è tornato quindi ad esaltarne la bellezza «perché i pellegrini si fermano se c’è uno in difficoltà, si salutano, fanno amicizia. E noi nella fatica non dobbiamo mai dimenticare gli altri. Abbiamo bisogno di quella gentilezza che rende la vita più bella. In questo tempo di guerre, di tante violenze, anche nelle nostre città, noi però non dobbiamo cedere alla paura: affidiamoci a Dio, tenendoci per mano, abbracciandoci. Perché l’amore fa vivere, mentre la solitudine abbrevia la vita. Ognuno di noi deve star bene dove sta, deve essere felice dove si trova, perché non è il posto, ma quello che hai dentro che ti cambia la vita». Spreafico si è avviato a concludere l’omelia, volgendo ancora una volta lo sguardo alla montagna che sovrasta il santuario, rivolgendo un augurio ai presenti, ma anche alle comunità di appartenenza e a quanti saliranno da maggio prossimo al santuario: «La Trinità vorrebbe che fossimo felici così: amandoci l’un l’altro. Chiediamo alla Trinità che ci faccia vivere proprio così». di Igor Traboni

Il vescovo Ambrogio: «La Quaresima un tempo in cui tornare al Signore»

Mercoledì delle Ceneri, quest è il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo Ambrogio Spreafico nella Messa nella Cattedrale di Anagni, 14 febbraio 2024 Sorelle e fratelli,oggi un invito pieno di amore raggiunge anche noi, come coloro che ascoltavano il profetaGioele in un tempo difficile, di guerra, carestie, sofferenza: “Ritornate a me con tutto ilcuore…ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira e digrande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”. Davanti al male si pensa di solito chenon si possa far niente o, per lo meno, che non dipende certo da noi se le cose non vanno beneo come noi vorremmo. Così cresce il pessimismo e l’indifferenza, mentre si aspetta che arrivifinalmente qualcuno che aggiusti le cose.Oggi, all’inizio della Quaresima, la parola profetica, una parola che ci aiuta a vedere le coseda un altro punto di vista, ci dice con chiarezza: “tornate” al Signore, perché ci aspetta nellasua misericordia, tenerezza, amore appassionato. Tocca a te, non ad altri. Anzi, tocca a noiinsieme, come assemblea, come comunità. Nella Bibbia questo invito è simile alle prime paroledi Gesù secondo il Vangelo di Marco, che il sacerdote ripeterà mettendo le ceneri sul capo diciascuno: “Convertitevi e credete nel Vangelo”, cioè cambiate voi stessi ascoltando il Signoreche vi parla. E si cambia tornando davanti a Dio, ascoltando la sua Parola. Capite allora il sensoprofondo dell’invito del profeta: tornare al Signore con tutto il cuore, perché così potremocambiare noi stessi, ma insieme, come comunità, come popolo di Dio. Ecco il segreto delcambiamento, che parte da noi stessi per rendere possibile il cambiamento del mondo. Nonriuscirai da solo. Hai bisogno di essere con gli altri, di andare insieme davanti al Signore, comefacciamo oggi.L’ invito è a radunare il popolo, a rendere possibile riunire tutti, dai vecchi ai fanciulli, dailattanti alla famiglia, dai sacerdoti a tutte le genti. L’inizio della Quaresima è una convocazionedella comunità perché, riconoscendo la nostra fragilità e il nostro peccato, possiamo rimettereil Signore al centro della nostra vita personale e comune e ricevere il suo perdono e la suacompassione. Le ceneri, che verranno poste sul nostro capo, ci ricordano proprio la fragilitàdella nostra condizione umana, quella polvere che noi siamo e a cui torneremo. Tuttavia, essaè animata dallo spirito di Dio, che le dà forma, animo, forza. Comprendiamo allora il bisognodel tempo che iniziamo, non un tempo triste, ma un tempo in cui tornare al Signore perricevere quella forza spirituale che potrà sostenere la nostra umanità e renderci sorelle efratelli, comunità in un mondo si cammina da soli, dediti a sé stessi, alla ricerca ansiosa delproprio benessere, prigionieri del nostro io. Il Vangelo ci indica, come ogni anno, i passi da compiere ogni giorno perché in questo tempopossiamo camminare insieme verso la Pasqua di morte e resurrezione del Signore Gesù:elemosina, preghiera, digiuno. Sono passi semplici quanto necessari. Comincia conl’elemosina, non con la preghiera, perché l’attenzione al bisogno dell’altro ti apre a Dio.L’elemosina ti libera dall’ossessione del possesso insegnandoti la gratuità del dono. Essa tirende felice, dà sollievo all’animo perché ti fa incontrare nel povero la presenza di Gesù. Ècome un atto di culto a Dio e ti fa incontrare con lui. La preghiera ci aiuta a vivere incomunione con il Signore. Nella preghiera la meditazione della Parola di Dio ci insegnal’alfabeto di Dio, ci dà parole, pensieri, sentimenti, con cui arricchire la nostra umanità. Ildigiuno è un gesto materiale di un digiuno spirituale, in cui prendiamo un po’ la distanza danoi stessi, da quel modo istintivo di mettere sé stessi al primo posto, che rende prepotenti,irritabili, rancorosi, protagonisti tristi, desiderosi di approvazioni e consensi. Insomma,l’elemosina ci fa generosi e gratuiti, liberandoci dal peso del possesso, la preghiera ci avvicinaal cuore di Dio, il digiuno fa esistere l’altro come parte del nostro essere donne e uomini di unpopolo che cammina insieme.Infine, Gesù invita a non esibirsi, a noi cercare approvazioni e consensi. Siamo assuefatti a unmondo in cui per esistere ci si deve esibire, mostrare se stessi, contare il numero deifollowers, degli amici che la pensano come te e ti scrivono “mi piace”, anche se basta a volte unclic per passare da amico a nemico. Non è nel consenso la felicità, ma piuttosto nel dare, nellagratuità dell’amore, nella comunione con Gesù, nella fraternità e nell’amicizia con i poveri enella tua comunità. Signore, aiutaci a vivere come tuo popolo, come comunità radunata dal tuoSpirito, per essere segno di amore e di pace in questo tempo di violenza e di guerra. Donaci digustare con te la gioia della fraternità e dell’amicizia con tutti, perché tu sei grande nell’amoree nel perdono. Amen!

Il vescovo alla Giornata del malato: “No alla cultura dello scarto”

Nel pomeriggio di domenica 11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes, il vescovo Ambrogio Spreafico ha presieduto la Messa per la Giornata del malato, nella chiesa Regina Pacis di Fiuggi. Si è trattato di un momento interdiocesano, che ha coinvolto quindi le associazioni  delle due diocesi (Unitalsi, con i presidenti Paola Pietrobono per Anagni-Alatri e Francesco Santoro per Frosinone-Veroli-Ferentino, e Siloe, presente a Frosinone, con il presidente Paolo Capocaccia) con oltre un centinaio tra malati e volontari. Con il vescovo Spreafico hanno concelebrato don Francesco Frusone, assistente Unitalsi per Anagni-Alatri, e padre Enzo Maria Francesco Iannaccone, parroco di Regina Pacis. Nel corso dell’omelia, e rifacendosi anche all’episodio del lebbroso del Vangelo del giorno, il vescovo Ambrogio ha indicato positivamente le realtà associative che si prendono cura di malati e disabili: «In un mondo diviso, dove c’è tanto odio ed egoismo, con la vostra esperienza positiva rappresentate una bella risposta di amore, solidarietà e fratellanza di cui c’è tanto bisogno. Questa è una società che tende a scartare il debole, l’ultimo», ha sottolineato Spreafico, invitando a dire ‘no’ alla cultura dello scarto, e ad accogliere invece con amore, malati, anziani, disabili «che sono il cuore di Dio». Sempre verso queste persone, il vescovo ha esortato «ad usare compassione», per rifuggire anche da una società fatta invece di troppi ‘io’, di tanti individualismi. Sia prima che dopo la Messa monsignor Spreafico si è inoltre intrattenuto con alcuni malati, che hanno voluto salutarlo. Prima del rito, invece, decine di malati e disabili si sono ritrovati presso la struttura dell’ex albergo Ludovici di Fiuggi per un momento conviviale, di allegria e spensieratezza, legato al carnevale, con musiche e giochi vari. Per quanto riguarda invece più da vicino l’Unitalsi della diocesi di Anagni-Alatri, in preparazione alla Pasqua ci sarà un momento di formazione e ritiro spirituale, con modalità da definire, guidato sempre dall’assistente don Francesco Frusone. A giugno ci sarà invece il pellegrinaggio diocesano a Lourdes (anche in questo caso data e modalità verranno comunicate successivamente, anche attraverso media e social diocesani), così come si sta pensando all’organizzazione del treno dei bambini per il santuario mariano di Loreto.

L’omelia del vescovo Ambrogio per la Giornata della vita consacrata

Questo è il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo Ambrogio Spreafico nella Messa per la Giornata della vita consacrata, celebrata a livello interdiocesano il 2 febbraio 2024 nella chiesa della Madonna del Carmine a Tecchiena.  ————————————————————————————————- Cari fratelli e sorelle celebriamo con gioia la festa della Presentazione al tempio di Gesù secondo la Torà, l’insegnamento di Dio al suo popolo Israele. Maria e Giuseppe non si sottraggono a questa prescrizione, ma al tempio incontrano due custodi di quella Parola di Dio, antica ma sempre attuale, sempre capace di parlare con un antico alfabeto un nuovo linguaggio. Simeone e Anna. Quei due anziani avevano custodito nel cuore quella Parola attraverso la preghiera e la frequentazione di quel luogo sacro. Erano persone di speranza, perché custodi di quella parola antica “lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino”, come recita il Salmo (119,105). Cari fratelli e sorelle, cari consacrati e consacrate, voi avete risposto alla chiamata di Dio in modo del tutto particolare. Di questo ringraziamo il Signore, come lo ringraziamo per la vostra testimonianza e i vostri carismi radicati in questa terra. Lo facciamo anche con le monache dei nostri monasteri di clausura, che non sono qui in presenza, ma si uniscono alla nostra celebrazione e alla nostra preghiera, e che salutiamo con affetto. Mi chiedo: come Simeone e Anna, siete anche voi ascoltatori e custodi della Parola antica di Dio nella vostra vita? E ancora: sapete rinnovare la vostra vita e le vostre opere alla luce di quella Parola che continua a parlarvi oggi, in questo tempo così complesso e nuovo rispetto magari alla storia dei vostri carismi? Oppure siete ancorati alle vostre tradizioni senza interrogarvi sul senso che esse hanno nel tempo in cui siamo? Oppure siete dominati dal mantenimento delle vostre strutture senza la fretta di condividerne le fatiche e le sofferenze perché siano luoghi in cui parla il Signore attraverso la vostra presenza? A volte ci prende il pessimismo, l’idea di un tramonto di cose antiche e ci lasciamo andare alla tristezza e a un senso di declino. Eppure, il Signore continua a parlarci, come fece con Simeone e Anna, i quali ascoltando seppero riconoscere nel Signore l’atteso delle genti. E noi? Come possiamo essere portatori della luce di Dio per il mondo, per i giovani o gli anziani affidati alle nostre cure? Chi parlerà di Lui se non saremo profeti della sua Parola e testimoni del suo amore con generosità e passione? Come costruiremo comunità che sanno essere luoghi di umanità, solidarietà, pace in un mondo violento e di tanti che si isolano e combattono? “Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui”. Care sorelle e cari fratelli, sappiamo ancora stupirci davanti alla Parola di Dio che ci parla di quanti aspettano la salvezza? Nelle nostre comunità ci sono spesso molti anziani, custoditeli. Come Simeone e Anna sono custodi di una storia e di uno spirito. Siano con noi donne e uomini di speranza, luce di Dio nelle tenebre del male, forza di amore e di pace. Cari amici, le luci con cui abbiamo accompagnato Gesù nella sua casa con Maria e Giuseppe, siano sempre con noi, siano guida per la nostra vita e luce per tutti coloro che noi incontriamo. Il mondo, a cominciare dai poveri, dai soli, dagli anziani, dai deboli, ha bisogno della luce di Dio. Non nascondiamola sotto il moggio, non nascondiamola a nessuno, mai, anche a chi è lontano dal Signore e dalla Chiesa. Tutti la aspettano. Tutti ne hanno bisogno.

Il vescovo alla marcia di Ac: «Costruiamo la pace ogni giorno»

La preghiera comunitaria guidata dal vescovo e la riflessione offerta ai presenti dallo stesso monsignor Ambrogio Spreafico hanno chiuso nel pomeriggio di sabato 27 gennaio la Marcia della pace, organizzata dall’Azione Cattolica diocesana e ospitata dalla città di Alatri. E proprio piazza Santa Maria Maggiore ha rappresentato il centro dell’iniziativa, che qui è iniziata e qui si è conclusa, sul sagrato della chiesa degli Scolopi, con intervento del vescovo che alle centinaia di bambini festanti ha subito chiesto: «Ma è possibile la pace?», con un coro entuasiasta di “sì” levatosi dalla piazza, colorata di cappellini, bandane e bandiere. «Ma la pace è possibile – ha quindi detto Spreafico – solo se si dialoga. E per dialogare la prima cosa da fare è ascoltare gli altri. Quando parlano mamma e papà, ad esempio, voi bambini dovete stare zitti e ascoltare. Ma anche quando parla un bambino, i genitori, i grandi, hanno il  dovere di ascoltare! Oggi invece si ascolta troppo poco e si pensa sempre di avere ragione. Vogliamo la pace, certo, ma poi litighiamo tra noi, oppure non accogliamo l’altro che è in difficoltà, l’amico o con il compagno di a scuola che ha bisogno, quando addirittura non arriviamo ad esercitare la violenza, come purtroppo è successo in questa città di Alatri. Perché la violenza non è solo la guerra che vediamo in televisione. Ma ci riguarda anche da vicino, se solo pensiamo che in Italia ci sono 8 milioni si armi e di queste 6 milioni e mezzo non sono neppure dichiarate, per non parlare poi delle armi che mandiamo in tutto il mondo. Gesù invece ci insegna che si vive disarmati. E allora – ha invitato il vescovo – disarmiamo anche i nostri cuori, i pensieri, i sentimenti, perché la pace cammina e si costruisce anche dentro di noi e attorno a noi. E invece tanti nostri paesi fanno a gara nelle “chiacchiere” sugli altri. Oppure non riusciamo a trattenere il ditino sul cellulare e mettiamo i like se uno insulta un altro. Ma questo non è da cristiani, mentre bisogna ricordare che Gesù ha detto: io sono la pace! Ascoltiamo Gesù e impariamo a costruire rapporti di amicizia, impariamo anche ad essere gentili con gli altri. Siamo qui per costruire la pace, ogni giorno!», ha concluso il vescovo, non prima di aver ricordato a bambini e ragazzi l’importanza del Giorno della Memoria, celebrato sempre il 27 gennaio. La marcia e le iniziative collegate, come detto, sono state ospitate da una accogliente città di Alatri, grazie anche ai luoghi e alle strutture messe a disposizione dal sindaco Maurizio Cianfrocca. Presenti diversi sacerdoti diocesani: il parroco don Walter Martiello, l’assistente unitario dell’Ac don Rosario Vitagliano, don Fabio Tagliaferri, don Roberto Martufi, don Pierluigi Nardi, don Luca Fanfarillo . Dopo l’arrivo dei gruppi e i saluti della presidente diocesana Concetta Coppotelli, del sindaco di Alatri e della responsabile del circolo Legambiente di Anagni (partner di questa edizione)  Rita Ambrosino, i partecipanti si sono divisi per gruppi di età e, guidati dagli educatori per l’ACR, dall’equipe e dall’assistente per il settore giovani e con don Fabio per il settore adulti, si è riflettuto insieme sulle seguenti tematiche di pace. Piccolissimi-FACCIAMO ESPLODERE LA PRIMAVERA 6 / 8 anni – SULLE DITA DI UNA MANO 9 / 11 – GUERRA E PACE 12 / 14- È BELLO CIÒ CHE È PACE GIOVANISSIMI e GIOVANI : Pace e comunicazione- Priorità di pace. ADULTI-“ FEDE E PACE”: BEATI GLI OPERATORI DI PACE! Tanti i presenti, comprese alcune religiose, e diverse le parrocchie partecipanti, da Alatri, Anagni, Fiuggi, Acuto, Fumone, Filettino, Mole Bisleti, Tecchiena, Tecchiena Castello, Sgurgola, con alcune iniziative collaterali pure degne di nota, come ad esempio quella presa dalle educatrici di Tecchiena Castello che hanno portato i bambini del catechismo anche in Concattedrale per far loro conoscere il miracolo dell’Ostia incarnata, accolti calorosamente dal parroco don Walter Martiello. La marcia ha quindi percorso le vie del centro storico, per poi fermarsi in preghiera a piazza Regina e in largo Paolo Cittadini “Il Girone”, in ricordo di Emanuele Morganti e di Thomas Bricca, prima di tornare in piazza Santa Maria Maggiore. La marcia della pace attraversa città e paesi italiani da quasi mezzo secolo, come ci ricorda la presidenza dell’Ac diocesana: l’educazione alla Pace entra a far parte del percorso formativo dell’ACR dopo l’incontro nazionale con papa Paolo VI del 20 maggio 1978 il cui slogan “La pace nascerà: parola di ragazzi”. Pochi giorni prima del giorno fissato, si verificano a Roma alcuni fatti di violenza terroristica. Il cardinale vicario Ugo Poletti decide dunque di cogliere l’occasione per lanciare un appello alla città per vincere la violenza invitando “tutti i cittadini di buona volontà” a partecipare alla manifestazione. Lo slogan scelto dall’ACR per la prima Carovana di pace è: Per la pace tutti in campo. La Carovana della pace o marcia, diviene così un appuntamento fisso per l’AC della diocesi di Roma e man mano si allarga a tutte le altre diocesi italiane. Così, nel mese di gennaio di ogni anno, si inizia a preparare questa manifestazione: i gruppi ACR delle parrocchie si confrontano su come portare pace nel mondo che li circonda e preparano un messaggio da offrire durante la messa e da scambiarsi con le altre parrocchie; colorano poi striscioni, cartelloni bandiere e costruiscono strumenti per “farsi sentire” durante il percorso. Nasce l’idea di una manifestazione che, a chiusura del percorso di riflessione dei gruppi parrocchiali, porti i bambini a testimoniare davanti alla città il loro desiderio di pace e il loro impegno personale.

Il vescovo a Mole Bisleti per parlare di pace ai bambini

Domenica 21 gennaio  le parrocchieincomunioneconmaria  hanno festeggiato sant’Antonio, un grande  uomo che ha lasciato i suoi agi e ha  lottato a lungo  per  ricercare la pace  nel cuore e con il Signore. In questa occasione i ragazzi della catechesi, coordinati egregiamente dalle loro catechiste, dopo aver  riflettuto sul messaggio della  pace di papa Francesco, hanno dato vita ad uno spettacolo che ha coinvolto emotivamente  i numerosi adulti presenti nella chiesa Maria Santissima del Rosario di Mole Bisleti. Alla presenza del vescovo monsignor Ambrogio Spreafico e del  parroco don Luca Fanfarillo, oltre che dei genitori, i bambini hanno cantato note di pace, recitato poesie scritte a più mani, hanno raccontato ai presenti i loro pensieri sulla  pace e hanno letto stralci del messaggio del Papa, con l’auspicio che le intelligenze artificiali possano aiutare l’umanità e non creare maggiori disuguaglianze in questo mondo già  tanto martoriato da guerre e violenza: “Soffiano venti di guerra nei cuori dei potenti della Terra, l’animo umano è pieno di odio e rancore, non c’ è più rispetto per l’altro né amore. Soffiano venti di pace nel cuore e nelle menti dei bimbi che gridano forte: pace invochiamo, pace sogniamo, pace vogliamo, pace auspichiamo.  La pace inizia da noi; la pace è possibile; sorella della pace è l’amore; la pace rende liberi e unisce le persone; la pace è il giardino in cui fiorisce la speranza; la pace è l’unica battaglia che vale la pena di intraprendere; la pace è amore; la pace è sorridere; in un luogo dove regna la pace anche i pensieri scelgono di non far rumore; non basta parlare di pace bisogna crederci; possa la pace illuminare il nostro cammino” Un’espressione assai forte e coraggiosa pronunciata dai ragazzi ha fatto tremare i polsi degli adulti presenti: «Perchè sono gli uomini a governare il mondo? Potevano farlo i cani, gli uccelli, i gatti pelosi, ma anche gli animali pericolosi…nessuno di loro né in pace, né in guerra farebbe del male a chi è della sua stessa specie. Vogliamo che torni presto gioia, vita e pace quieta in ogni piccolo angolo di questo pianeta. La pace nascerà: parola di ragazzi». Ha concluso la giornata iniziata con la preghiera, il gioco, la condivisione del pranzo e la riflessione, il vescovo Ambrogio che ha raccontato che nel mondo esistono decine di conflitti, che in Italia si trovano milioni di armi ma la forza dell’ alfabeto della pace e della preghiera porterà la pace nel cuore di ogni uomo. Monsignor Spreafico ha quindi rassicurato  i ragazzi,  che sono la speranza del domani, che un giorno vivranno in un mondo finalmente pacificato.

Il vescovo alla veglia ecumenica: «La “compassione” rende la vita possibile»

La domanda del maestro della Torà, la Legge, era molto importante, direi una domanda legittima che esprime un desiderio di bene, di eternità, cioè di qualcosa che non finisce, che va persino oltre la nostra esistenza terrena. Noi, il mondo, siamo pieni di domande di questo genere. Tuttavia molte volte preferiamo non porle, non farle, soprattutto a Gesù, perché preferiamo rimanere come siamo, non essere disturbati, non essere messi in discussione. Gesù accoglie quelle domande e non risponde come avrebbe potuto, ma vuole dialogare con quell’uomo saggio. Così fa anche con noi. La sua Parola non si impone, ma è frutto di un dialogo, di domande a cui rispondere.  Così avvenne per quel saggio, che rispose ripetendo il grande e unico comandamento, che racchiude in sé tutta la legge. Non si accontenta tuttavia dell’apprezzamento del Signore, e vuole continuare a capire: “Chi è il mio prossimo?”. Conosciamo bene la parabola del Buon Samaritano. Chi fu il prossimo di quell’uomo mezzo morto lasciato sul bordo della strada? Tutti e tre videro quell’uomo, ma uno solo si fermò. Eppure erano uomini religiosi, un sacerdote e un addetto al tempio. Cari amici, non basta essere frequentatori della casa di Dio per vivere secondo la sua parola e non secondo noi stessi. Noi vediamo tante immagini di donne e uomini mezzi morti o eliminati dall’odio, dalla violenza, dalla guerra, dall’abbandono della nostra società a volte crudele e disumana. Certo vediamo. Ma poi le immagini passano e si dileguano. Anche noi spesso passiamo oltre, dall’altra parte, scansiamo il dolore di quelle immagini. Chi si ricorda Cutro? Chi si ferma davanti alle immagini di morte, di guerra, di distruzione? E quante volte passiamo oltre il dolore e la solitudine di un’anziana sola o malata, che avrebbe bisogno di qualcuno che si accorga di lei, prima che muoia e venga trovata a casa magari dopo mesi? Che cosa cambia la sorte segnata di quell’uomo mezzo morto? Si legge: “Un samaritano, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide, e ne ebbe compassione. Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò”. La “compassione”, sentimento attribuito solo a Gesù nel Vangelo, cambia la scelta di quell’uomo che passava di là per caso e non aveva nulla a che fare con quel poveretto. Cari fratelli e sorelle, la “compassione”, la scelta di immedesimarsi nella condizione dell’altro, chiunque sia, ma soprattutto in chi è nel dolore, chi è ferito dalla vita, rende la vita possibile, perché fa avvicinare, si fa cura, medicina. Ma non può fare tutto il samaritano. Tuttavia lo porta in un luogo dove qualcun altro possa continuare a prendersi cura di lui. Queste locande sono le nostre comunità. Nessuno riesce a far tutto da solo per gli altri, né per i poveri. Abbiamo bisogno di essere nel “noi” delle nostre comunità, che, come ha detto papa Francesco, dovrebbero essere come “ospedali da campo”. Allora capiamo la domanda di Gesù, che rovescia quella di quel saggio. Chi è il mio prossimo? Per scoprirlo devi “farti prossimo” altrimenti non lo capirai mai! Nella prossimità verso il bisogno degli altri sono certo che affretteremo il tempo dell’unità piena tra i discepoli di  Gesù, di cui il mondo ha tanto bisogno. Allora quel saggio del Vangelo rispose molto bene al Signore: “Quello che ha avuto misericordia (e non “compassione”, come traduce la Bibbia) di lui”. La misericordia, infatti, è la compassione diventata il nostro modo di vivere con gli altri. Facciamo come quell’uomo, se vogliamo costruire un mondo fraterno, dove ci sia posto per tutti, a cominciare dagli ultimi e dai poveri. Questa scelta ci renderà più uniti, un “noi” nel rispetto delle nostre diversità e aiuterà la pace nel mondo. “Chiese sorelle, popoli fratelli”, diceva Atenagora, patriarca di Costantinopoli, lui che aveva incontrato papa Paolo VI a Gerusalemme dopo secoli di distanza.

Il vescovo ad Anagni: San Magno modello per vivere insieme e in pace

San Magno – Anagni Sapienza 3,1-9; Giacomo 1,2-4.12; Matteo 10,28-33 Cari fratelli e sorelle, celebriamo la festa di San Magno, vescovo e martire, patrono di questa nostra città, che racchiude in sé luoghi, come questa Cattedrale, che testimoniano una vita cristiana che ha accompagnato generazioni di donne e uomini. Voi conoscete certamente le vicende di San Magno, vescovo di Trani, e della sua predicazione del Vangelo ad Anagni e del suo martirio nell’anno 251. Quando veneriamo i santi, dobbiamo sempre ricordarci il tempo in cui essi hanno vissuto e testimoniato il Vangelo, a volte fino al dono della vita, come avvenne per il nostro patrono. Il Vangelo di Gesù infatti contrastava fin da allora un mondo a volte belligerante e violento, i cui governanti si sentivano messi in discussione da una Parola che proclamava la giustizia, una fraternità che includesse sudditi e potenti, schiavi e liberi, poveri e ricchi, cittadini romani e stranieri. Allora come oggi questo Vangelo non poteva che suscitare interrogativi e opposizioni fino alla condanna a morte, al martirio. E le persecuzioni furono numerose e continue nei primi secoli del cristianesimo, e continuano anche oggi in diversi Paesi del mondo. Ogni volta si crede così di mettere a tacere il Vangelo, ma, come abbiamo ascoltato nel libro della Sapienza: “Agli occhi degli stolti (i giusti) parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace”. Cari fratelli e sorelle, il nostro patrono ci interroga. Egli fu vescovo e martire. Vescovo, cioè pastore, chiamato a prendersi cura degli altri, soprattutto di chi è disperso e si è smarrito, di chi è ferito, malato, di chi è rimasto indietro, perché il popolo che gli è stato affidato possa camminare insieme. San Magno allora ci interroga: non dovremmo essere anche noi uomini e donne che, mentre sono in festa per lui, ne traggono un modello per la loro vita? Non dovremmo anche noi vivere prendendoci cura degli altri?  Qui non si tratta solo di chi ha delle responsabilità nella Chiesa e o nella società civile, ma di tutti. Quanto sentiamo la responsabilità di prenderci cura gli uni degli altri, a cominciare dai sofferenti e dagli esclusi? O pensiamo sempre che tocchi agli altri vivere questa preoccupazione? Non dovrebbero le nostre comunità parrocchiali, diocesane, cittadine, mettere al primo posto questa preoccupazione e scegliere questo impegno facendo crescere l’attenzione agli altri, soprattutto a chi soffre o vive un momento difficile in questo tempo di crisi? Non dovremmo abbandonare quel facile e istintivo modo di vivere, che mette al primo posto se stessi, il proprio tornaconto, .a propria visibiltà e la propria affermazione, invece del bene comune? E quante volte avviene sia a livello individuale che collettivo! Come faremo a vivere insieme se non sappiamo rinunciare a nulla di noi stessi per il bene di tutti, o se in ogni scelta vogliamo sempre che sia a nostro vantaggio o del nostro gruppo? L’amore, cari amici, lascia sempre spazio all’altro, altrimenti vuol dire che ami solo te stesso. Ma quanta prepotenza, quanto egoismo nella vita di ogni giorno! Oggi San Magno vorrebbe che ognuno capisse che la felicità viene dal dare più che dal ricevere, e che per dare si deve essere umili per avere occhi e cuore per vedere il bisogno degli altri. Certo, vivere così non è facile. Sono convinto tuttavia che in ognuno di noi, come in ogni donna e ogni uomo, ci sia il desiderio del bene. Si deve solo vedere e tenere vivo questo desiderio, lasciarlo crescere nelle nostre parole, nei gesti, nelle scelte di ogni giorno, in quello che diciamo o scriviamo, magari sui social, per insultare qualcuno o sostenendo che ognuno può dire ciò vuole senza preoccuparsi di danneggiare gli altri. E poi si deve imparare a cogliere il bene anche negli altri, lasciando da parte un modo scontato di vedere e giudicare. Chissà perché, infatti, l’istinto ci fa sempre vedere nella vita dell’altro il difetto, il male, quello che non ci piace, Gesù direbbe la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma non la trave nel nostro. Così vorremmo che il mondo cambiasse, ma ovviamente non cominciando da noi, ma dagli altri. Il martire aveva capito che solo con la certezza e la forza dell’amore di Dio e le scelte conseguenti avrebbe potuto cambiare quel mondo, il suo mondo. Cari fratelli e sorelle, il Signore ci custodisce, si occupa di noi, ci tende la mano. Lo abbiamo ascoltato nel Vangelo: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Persino i capelli del vostro capo sono tutti contatti. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri”. Questa certezza è la forza dei martiri, che non rinunciarono a vivere la gioia del Vangelo neppure davanti alla minaccia della morte. “Non abbiate paura” allora di dare con gratuità, senza sempre pretendere! Non abbiate paura di amare con generosità e larghezza! Solo così renderemo il mondo più umano e più giusto. Solo così potremo prenderci cura dei piccoli, dei fragili, degli anziani, dei poveri, dei migranti, e saremo felici. Solo così, imitando san Magno, potremo costruire qui e ovunque un mondo dove si possa vivere insieme senza guerre e violenza, senza prepotenza ed egoismi, un mondo di fratelli e sorelle, dove nessuno sia più escluso e abbandonato. E’ accettabile un mondo in cui gli anziani non possano vivere a casa loro o una società che non si preoccupa che i giovani abbiano un futuro nella terra dove sono nati? E’ pensabile un mondo che lascia morire i migranti pensando che la colpa sia solo di chi li lascia partire o dei trafficanti di esseri umani, che ovviamente hanno le loro gravi colpe? Quest’anno ne sono morti nel Mediterraneo circa 2000! E’ accettabile un mondo che, nonostante la brutalità delle guerre del passato, pensi ancora alla guerra come unica via alla pace? Vogliamo un mondo fraterno a cominciare da noi stessi e dal nostro