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Assemblea Ecclesiale 2024, la relazione di don Pasquale Bua: La Chiesa in un mondo che brucia

5 Ottobre 2024

Assemblea Ecclesiale 2024, la relazione di don Pasquale Bua: La Chiesa in un mondo che brucia

Segue il testo completo del prof. Pasquale Bua dal titolo 
La Chiesa in un mondo che brucia – Segni dei tempi e rinnovamento pastorale
Clicca qui per scaricare il pdf

1. Il mondo “cristiano” sta finendo?

Il titolo – volutamente provocatorio – di questo intervento riprende liberamente quello di una pubblicazione abbastanza recente di Andrea Riccardi, che ha fatto molto discutere negli ambienti ecclesiali e non solo, soprattutto nella stagione faticosa del Covid-19: La Chiesa brucia. L’immagine da cui il titolo trae ispirazione è quella del terribile rogo della cattedrale di Notre-Dame, al quale il mondo ha assistito attonito nell’aprile 2019. Per Riccardi, navigato storico del cristianesimo contemporaneo e soprattutto acuto interprete del nostro tempo, quel rogo assumerebbe un valore per così dire simbolico. A bruciare, oltre che un edificio altamente rappresentativo dell’architettura religiosa europea, sarebbe oggi la “Chiesa” con la “c” maiuscola: la Chiesa come comunità e istituzione, la Chiesa
come mentalità e cultura, la Chiesa come eredità e tradizione. La Chiesa, cioè, nella quale siamo nati e cresciuti, che per l’autore andrebbe lentamente sbriciolandosi davanti ai nostri occhi.
Gli studiosi, del resto, hanno lanciato da decenni il grido d’allarme, parlando di tramonto della cristianità o di fine dell’epoca costantiniana, ovvero di quella lunga stagione (iniziata addirittura nel IV secolo), in cui la Chiesa ha goduto in Occidente di riconoscimento civile e privilegi economici, diventando un fenomeno di massa. Invertendo i termini della celebre espressione di Tertulliano, per il quale «cristiani non si nasce, ma si diventa» (al termine di un cammino personale di conversione), qui da noi è stato vero fino a oggi il contrario, ovvero che cristiani non si diventa, si nasce. Nessuno di noi è “diventato” cristiano, ma tutti
siamo “nati” cristiani. I rudimenti della fede li abbiamo bevuti con il latte materno, cosicché essi hanno plasmato – non senza deformazioni e strumentalizzazioni anche gravi – il tessuto sociale del mondo occidentale, il mondo cosiddetto “cristiano”.
Da un bel po’ questo non è più vero. È sotto gli occhi di tutti che la cristianità è stata aggredita da una tendenza opposta, che va sotto il nome di secolarizzazione oppure, con un termine più crudo, di scristianizzazione. Se questo fenomeno è iniziato da tempo, almeno dal XIX secolo – anche se i suoi presupposti remoti rimontano all’avvento dell’epoca moderna nel XVI secolo o forse anche più indietro –, è solo nell’ultimo secolo che, qui da noi, esso ha cominciato a dispiegare tutte le sue conseguenze. Solo adesso, quindi, stiamo cominciando ad aprire gli occhi sulla sua reale portata.
Quello di Riccardi è un libro pieno di domande: domande dirette, difficili, per certi aspetti drammatiche. Da quella che si trova nelle primissime pagine e che dà il là all’intera riflessione: «Che cosa sarà il mondo senza la Chiesa?», a quella cruciale che funge da titolo all’ultimo capitolo: «C’è futuro [per il cristianesimo]»? Ognuno è interpellato da simili interrogativi, si professi o meno cristiano, perché la crisi del cristianesimo è la crisi di una storia da cui tutti proveniamo, di un mondo in cui tutti viviamo, di una cultura in cui tutti siamo stati educati, e come tale chiama in causa anche coloro che non si dichiarano
credenti, come lasciava intendere già il famoso articolo di Benedetto Croce pubblicato nel 1942: «Perché non possiamo non dirci cristiani».

2. Crescita o declino della Chiesa?

Restando idealmente a Parigi, potremmo riformulare la domanda posta da Riccardi facendoci aiutare da un personaggio celebre proprio per la sua capacità di leggere attentamente il presente e di prevedere lucidamente il futuro: il card. Emmanuel Suhard, arcivescovo della capitale francese negli anni Quaranta del secolo scorso, noto tra le altre cose per aver dato avvio all’esperienza dei preti-operai nel tentativo di recuperare alla Chiesa le masse proletarie. Mi riferisco alla domanda che dà il titolo alla sua lettera
pastorale del 1947: Essor ou déclin de l’Eglise? Crescita o declino della Chiesa? Se a quel tempo qualcuno si sarebbe ancora arrischiato a scegliere la prima opzione, almeno in Italia, dove il tessuto cristiano della società sembrava rimanere solido, oggi le statistiche –anche quelle che i parroci fanno “artigianalmente” nelle loro parrocchie – ci inducono a gridare “declino”. Ogni anno perdiamo “pezzi”, in termini di frequenza domenicale, richiesta dei sacramenti, adesione alle iniziative pastorali, e certo l’inverno demografico – pure innegabile – non basta a spiegare tutto. Anche la crescente penuria di vocazioni al
ministero ordinato e alla vita consacrata, che sta costringendo tutte le nostre diocesi a rivedere gli assetti pastorali tradizionali, facendo ad esempio saltare lo schema collaudato “un parroco per parrocchia”, è la spia del cambiamento in atto.
Da noi, nell’Italia centro-meridionale, protetta dallo “zoccolo duro” di antiche e robuste tradizioni religiose, certi fenomeni prima impensabili sono arrivati in ritardo rispetto all’Europa centrale e alla stessa Italia settentrionale. Ma, volgendo lo sguardo verso Nord, non ci è difficile prevedere il nostro futuro con una certa approssimazione. Se abbiamo visto scendere vertiginosamente, negli ultimi decenni, il numero dei matrimoni religiosi, a vantaggio di quelli civili e soprattutto delle semplici convivenze, se abbiamo visto diminuire il numero delle cresime e in misura minore quello delle prime comunioni, qui da noi
tengono ancora – ad esempio – i battesimi dei bambini e i funerali religiosi. Prepariamoci, però: il “vento del Nord” non porta buone notizie neppure su questi due fronti, cosicché è prevedibile che scemerà gradualmente nei prossimi anni pure il numero dei pedobattesimi, mentre finirà per imporsi anche nei nostri territori una realtà ancora pressoché sconosciuta, quella delle cosiddette esequie “laiche”.

3. Non declino, ma crisi
Declino, dunque? In realtà, come spesso accade, tra le due alternative esiste una terza via, che di nuovo Riccardi propone nelle pagine conclusive del suo saggio: crisi. La crisi – scrive l’autore riecheggiando la lezione biblica – non è il declino, ma l’ora del giudizio. Se guardiamo alla storia della Chiesa, la crisi è una condizione normale del cristianesimo, non c’è stata epoca in cui il cristianesimo non sia stato in crisi, compresa la presunta “epoca d’oro” dei primi secoli. Se talvolta, un po’ ingenuamente, tendiamo a idealizzare il cristianesimo primitivo, è perché quell’epoca ci è molto lontana e poco nota; se, invece, ci
prendiamo la briga di leggere con attenzione le testimonianze patristiche ci rendiamo conto che anche quella è stata una stagione di crisi violente, in cui la nave della Chiesa – sono le parole del grande Basilio di Cesarea dopo il Concilio di Nicea – è parsa quasi affondare tra i marosi delle contese che minacciavano la pace ecclesiale.
Di crisi parla anche Gesù, in una pagina evangelica più volte tirata in ballo nella stagione del Covid: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”» (Lc 12,54-57). Nell’ultima domanda di questa pericope lucana, il verbo «giudicare» traduce appunto il greco krívein, da cui deriva il sostantivo krísis. Nella lingua greca, non escluso il greco biblico, krísis non assume necessariamente un’accezione funesta, ma richiama l’idea di separare e giudicare. Il termine finisce per acquistare una sfumatura addirittura positiva, nel senso che la crisi può diventare occasione di riflessione, di valutazione, meglio ancora di discernimento, trasformandosi nel presupposto necessario per un miglioramento, una rinascita, un nuovo inizio. Potremmo così accostare la parola krísis a un altro termine
neotestamentario: chairós, vocabolo che indica l’occasione, l’opportunità, una stagione propizia che interrompe il ciclo sempre identico dei giorni e degli anni (il krónos) e che ci chiede di assumere un atteggiamento nuovo.
Ammettere che siamo in crisi non significa dunque affermare che stiamo annegando, anche perché ciò in ultima analisi equivarrebbe a dubitare del fatto che lo Spirito Santo dimora «per sempre» nella Chiesa, come invece Cristo ci ha promesso (cfr. Gv 14,16), guidandola lungo i sentieri della storia fino alla fine dei tempi. Significa, piuttosto, riconoscere che il mondo attorno a noi sta cambiando e che dobbiamo sforzarci di comprenderlo meglio per poter continuare a compiere l’unica opera che il Signore ci ha
affidato: annunciare il Vangelo a ogni essere umano. Come diceva San Paolo VI nell’omelia finale del Concilio Vaticano II, il grande sforzo della Chiesa del nostro tempo deve essere quello di conoscere di più il mondo in cui vive per poterlo amare di più. Se la crisi attuale ci consentisse tutto questo, essa potrebbe non chiudere bensì aprire al futuro.

4. Un nuovo “sguardo” e una nuova “postura”
Proprio con l’aiuto del Vaticano II, di cui (forse un po’ in sordina) stiamo celebrando il sessantesimo anniversario, vorrei proporre alcune semplici riflessioni per “capire la Chiesa” e soprattutto per “essere Chiesa” in un mondo che cambia, anzi che brucia, come ogni giorno ci dimostrano tra l’altro le guerre, vicine e lontane, che insanguinano il nostro tempo. Mi riferirò in particolare all’ultima delle grandi costituzioni conciliari, la Gaudium et spes, forse la più rappresentativa del “cambiamento di sguardo” operato dal Concilio. Sì, perché a cambiare con il Concilio è stato soprattutto lo sguardo, o se si preferisce la “postura”, della Chiesa nei riguardi del mondo. Qualcuno parla al riguardo di rapprochement, cioè di “riconciliazione” tra Chiesa e modernità.
Con una sintesi necessariamente approssimativa potremmo dire che, fino al Concilio, le principali posture della Chiesa cattolica nei riguardi del mondo sono riassumibili in due formule. La prima suona: “Chiesa contro il mondo”. L’immagine spesso utilizzata dagli storici dell’ecclesiologia per descrivere quest’atteggiamento è quella della “cittadella assediata”: dato che il mondo si è “pervertito”, votandosi a principi incompatibili con il Vangelo (l’ateismo, il materialismo, il consumismo, l’edonismo e chi più ne ha più ne metta), la Chiesa si sente cinta d’assedio e costretta a erigere mura di fortificazione per non lasciarsi assalire. Da questo mondo la Chiesa – e il cristiano all’interno della Chiesa – deve difendersi in ogni modo, attraverso le armi della predicazione e della dottrina, se necessario anche quelle del diritto canonico, come la scomunica. Se volete, è la Chiesa del Sillabo di Pio IX (1864), che non a caso ha come titolo completo Elenco (Sillabo) contenente i principali errori del nostro tempo. Dello stesso tenore, ormai quasi alla vigilia del Concilio, è l’enciclica Humani generis di Pio XII (1950), che ha come argomento le
«false opinioni che si diffondono nel mondo». Sono testi datati, ma la postura che essi sottendono sopravvive ancor oggi: quante volte noi preti, noi catechisti, noi operatori pastorali abbiamo insegnato che il mondo “fuori”, il mondo “attorno” è corrotto, guasto, immorale, e che il cristiano deve tenersene lontano e all’occorrenza contrastarlo?
È vero che un’accezione negativa del “mondo” non è sconosciuta alle Sacre Scritture, in particolare al Vangelo di Giovanni: ad esempio, nel prologo («Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto», 1,9-10); in occasione dell’incontro con i Greci subito prima della passione («Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori», 12,31); e soprattutto nei discorsi di addio («Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia», 15,18-19; «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!», 16,33). Non si può, tuttavia, dimenticare neppure la lezione del Qoelet, che ci ammonisce: «Non dire: “Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?”, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza» (7,10). Mettendo insieme queste due asserzioni bibliche, potremmo concludere che è vero che il mondo è, a causa del peccato, lo scenario di una tragica opposizione all’opera di Dio, ma è anche vero che questa condizione appartiene a ogni epoca, per cui è semplicemente stolto condannare il tempo in cui ci è dato di vivere, rimpiangendo i bei tempi andati, perché in ogni tempo il mondo ha le sue luci e le sue tante ombre.
La seconda postura la si può, invece, sintetizzare così: “Chiesa accanto al mondo”. Si tratta di un atteggiamento meno “combattivo” del precedente, un atteggiamento per il quale Chiesa e mondo si presentano come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Non sono in lotta, sono semplicemente indifferenti l’una all’altro. Molte volte ci lamentiamo del fatto che il mondo è indifferente alla Chiesa, snobbandola, ma non ci avvediamo che anche la Chiesa è spesso indifferente al mondo, ignorandolo. Il mondo è “fuori”, non entra nel campo di “competenza” dei cristiani, i “suoi” problemi non sono i problemi dei credenti. In proposito, va certo rammentato che la tradizione cristiana antica e
medievale conosce l’ideale del contemptus mundi (letteralmente: disprezzo del mondo) o della fuga mundi (letteralmente: fuga del mondo), di cui la vita monastica – e in modo tutto particolare quella claustrale – sarebbe, ieri come oggi, la massima espressione. Sembrerebbe un ideale superato, e per tanti aspetti lo è. Eppure, se osserviamo con più attenzione, non è forse vero che una postura di questo tipo sopravvive ogni volta che le nostre comunità cristiane si sentono estranee ai problemi della città terrena, preoccupate solo dei loro affari interni (in primis catechesi e liturgia), quando ad esempio in tempo di
guerra l’invocazione di pace non arriva a elevarsi dalle nostre celebrazioni, oppure quando i problemi ecologici ci sembrano problemi della “società”, di cui devono occuparsi lo Stato, la Comunità internazionale, le associazioni no profit, ma non certamente “noi” cristiani?
In realtà, l’autentica fuga mundi, proposta in tante tradizioni spirituali, non è affatto dimenticanza o disinteresse per il mondo: chi conosce almeno un po’ le claustrali lo sa. Costoro non si concepiscono affatto come un corpo estraneo “accanto” al mondo, bensì – se così possiamo dire – come il “cuore” stesso del mondo, perché la loro vocazione è quella di innalzare a Dio i palpiti dell’umanità intera. Tutto ciò che è umano è presente nella loro preghiera, diurna e notturna: tutte le guerre, tutte le povertà, tutte le ingiustizie. Il loro compito – il nostro compito! – è quello di “intercedere” per il mondo, dove intercedere significa letteralmente – come osservava il Card. Carlo Maria Martini – “camminare in
mezzo”, stando con un piede da una parte e un piede dall’altra. Ecco allora che, per avere
il piede ben piantato nel cielo, occorre tenere l’altro piede ben piantato sulla terra.

5. Essere Chiesa “nel” mondo

Portandosi oltre le suddette due posture, che potremmo anche denominare rispettivamente difensiva e remissiva, Gaudium et spes prova a proporne un’altra, ben riconoscibile già nel titolo del documento conciliare: «La Chiesa nel mondo contemporaneo» (Ecclesia in mundo huius temporis). A fare la differenza è qui una parola piccolissima ma decisiva: “in”. La proposizione “in” nella Bibbia assume non di rado
un’eccezionale densità semantica: ne è la riprova, ancora una volta, il Vangelo di Giovanni, quando afferma che il Figlio è “nel” Padre e il Padre “nel” Figlio (cfr. 14,11), ovvero che i discepoli devono rimanere “in” Cristo e Cristo “in” loro (cfr. 15,4), o anche Paolo quando dice di sé: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). A partire da questi testi, come è noto, la tradizione teologica ha elaborato il profondo concetto di in-abitazione o in-esistenza.
Che cosa questo “in” esattamente voglia dire nella costituzione pastorale del Concilio, lo chiariscono immediatamente le parole del proemio: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (n. 1). Le conosciamo già, queste parole, soprattutto noi preti, ma le abbiamo mai veramente “comprese”? Ci hanno mai scosso in profondità? Ci hanno disposto ad assumere l’unica postura degna della Chiesa
di Dio, il quale – dice sempre il Vangelo di Giovanni, a dimostrazione che l’accezione deteriore del termine kósmos non è l’unica che l’Evangelista conosce – «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (3,16), e questo perché – prosegue Gesù in questo dialogo notturno con Nicodemo – «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Come potrebbe la Chiesa combattere, o anche solo ignorare, questo mondo per il quale il Padre ha donato ciò che, fin dall’eternità, possiede di più prezioso, il proprio Figlio? Come la Chiesa potrebbe disperare, o anche solo disinteressarsi, della salvezza di questo mondo che Dio non vuole condannare nonostante le sue perversità, un mondo che al contrario vuole redimere a tutti i costi, addirittura al costo della croce del Figlio?

6. La lezione ancora attuale di Gaudium et spes
Scorrendo solo la prima parte di Gaudium et spes, che è un documento non solo molto lungo ma anche molto eterogeneo dal punto di vista contenutistico, possiamo specificare meglio questa nuova postura indicata dal Concilio (o, come dicevamo pure, questo nuovo sguardo) in tre aspetti.
Chiesa nel mondo significa, anzitutto, Chiesa solidale con il mondo. Tutti ricordiamo don Lorenzo Milani e il suo I care, «mi interessa», «me ne importa», «mi sta a cuore», che campeggiava sulla parete della scuola di Barbiana facendo il verso al celebre motto fascista «Me ne frego». Gaudium et spes 1 esprime, in fondo, la stessa idea quando afferma: «La comunità [dei discepoli di Cristo] è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre,
e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia». La sfida è per noi quella di adattare queste parole alla realtà concreta in cui viviamo, per non ridurle a formule tanto altisonanti quanto astratte: cosa significherà per una Chiesa locale, per una parrocchia di città piuttosto che di campagna, per un movimento o un’associazione ecclesiale, farsi «realmente e intimamente» solidale con il mondo in cui si trova a vivere? Significherà, ad esempio, che laddove il problema della comunità umana che abita in questo fazzoletto di terra è la disoccupazione o il lavoro nero o quello sottopagato, la comunità cristiana spingerà l’acceleratore della pastorale del lavoro; che laddove il problema è invece l’inquinamento del suolo e delle acque, la Chiesa sarà in prima linea per difendere la creazione di Dio e con esso la salute umana; che laddove il problema è infine la mancanza di prospettive nei giovani, quella comunità investirà le sue energie per offrire alle nuove generazioni un supplemento di speranza. Chiesa nel mondo significa, poi, Chiesa attenta ai «segni dei tempi». Gaudium et spes 4, riprendendo l’enciclica Pacem in terris di san Giovanni XXIII, pubblicata nel 1963, introduce nel magistero conciliare questa nuova categoria teologica, illustrandola così: «È dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, essa possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche». Mentre il n. 11 aggiunge: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio». Potremmo definire i signa temporum quei passaggi di Dio nella storia umana misteriosamente gravidi di significato salvifico. Ogni epoca ha i suoi segni dei tempi: noi cristiani, come dicevamo prima, siamo molto bravi a puntare il dito contro il negativo del mondo in cui viviamo, negativo che certo non manca e che va denunciato senza esitazioni; non altrettanto bravi a riconoscere – il verbo conciliare, caro anche a papa Francesco, è piuttosto discernere – il positivo che affiora in questo stesso mondo, semplicemente perché Dio non lo ha abbandonato e continua a effondere in esso il proprio Spirito. Quali sono i segni dei tempi del nostro tempo, magari intrecciati a elementi meno buoni e per questo bisognosi di purificazione, come sempre Gaudium et spes 11 si premura di precisare? Ancor più chiaramente del Concilio, era già stato papa Giovanni a enumerare alcuni dei segni dei tempi di quest’epoca, dimostrando in ciò uno sguardo lungimirante perché – come constatiamo a sessant’anni di distanza – quei segni sarebbero ulteriormente maturati nei decenni a venire: l’ascesa socio-economica della classi operaie, anche grazie al riconoscimento dei diritti dei lavoratori; l’ingresso della donna nella vita pubblica, e più in generale l’anelito a una più effettiva parità tra uomini e donne; la nascita delle confederazioni internazionali degli Stati quale garanzia per la pace internazionale; l’uguaglianza tra gli uomini fondata sulla loro comune dignità e la conseguente lotta alle discriminazioni razziali; la maggiore sensibilità dei nostri contemporanei (pensiamo qui soprattutto ai giovani) a valori come la verità, la giustizia, l’amore, la libertà (cfr. Pacem in terris 21-25). Cosa vuol dire, per le nostre comunità, sapere discernere i segni dei tempi, cioè imparare a guardarsi intorno e a riconoscere i germogli di bene del nostro tempo, sforzandoci di valorizzarli nella nostra progettazione pastorale? La sete di verità e la disponibilità al servizio dei poveri di tanti giovani, gli interrogativi profondi che animano il cuore di tante giovani coppie dopo il matrimonio, l’emergenza di nuove forme di spiritualità, la diffusione del volontariato, la maturazione di stili di vita ecologicamente sostenibili, la sensibilità per la cultura e l’arte, l’indignazione contro la guerra e l’ingiustizia: non sono queste realtà altrettante “fessure” nelle quali la comunità cristiana può inserirsi, consapevole che tali istanze sono già tutte in un modo o nell’altro fondate nel Vangelo? Chiesa nel mondo significa, infine, Chiesa che sa imparare dal mondo. Proseguendo in un certo senso il discorso della Pacem in terris, il Concilio riconosce che molti dei valori cui gli uomini del nostro tempo sono sensibili hanno consentito alla Chiesa stessa di scoprirne l’importanza per la sua propria identità e missione. La Chiesa, dunque, non è solo e sempre nell’atteggiamento di chi dà qualcosa al mondo, correndo il rischio di un compiaciuto paternalismo, ma si trova talvolta anche nell’atteggiamento di chi riceve qualcosa dal mondo, perché lo Spirito Santo, che non è certo prigioniero entro i confini visibili della Chiesa, può far maturare in anticipo al di fuori di essa, addirittura proprio dove meno ce lo aspetteremmo, dei semi buoni utili alla costruzione del Regno. È anche questo, per tornare al discorso che facevamo prima, un chiaro segnale di un coraggioso cambiamento di postura, rivelatore di una visione meno trionfalistica e diremmo più “umile”
della Chiesa. Così leggiamo in particolare in Gaudium et spes 44: «Essa [La Chiesa] sente
con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti
dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque promuove la comunità umana
nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della
politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno
di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni.
Anzi, la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino
dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano».
A quest’ultimo proposito, se è vero – come dice san Paolo – che «tutto concorre al bene
di coloro che amano Dio» (Rm 8,28), non sorprende che proprio ai nostri presunti
“avversari” dobbiamo molte volte una speciale riconoscenza. I valori “laicissimi” –
sbandierati anche contro la Chiesa fin dai tempi della Rivoluzione francese –
dell’inviolabile libertà della persona umana, della fraternità tra tutti gli esseri umani e della
loro radicale uguaglianza contro una concezione rigidamente piramidale della società, non
hanno forse consentito al cristianesimo di scoprire e di riappropriarsi di verità
genuinamente evangeliche eppure a lungo dimenticate? Basterebbe leggere il capitolo II
di Lumen gentium sul Popolo di Dio, con la sua bellissima ripresa nel n. 32 – dove si
insegna che nella Chiesa vige una fondamentale uguaglianza fra tutti i battezzati che
precede e giustifica le distinzioni ministeriali, con la naturale conseguenza che la Chiesa è
per sua natura una comunità di fratelli e di sorelle – per rendersi conto di quanto dobbiamo
alla tanto vituperata modernità. Allora: che cosa possiamo imparare dal mondo che ci
circonda? Quale lezione ci viene impartita dai nostri contemporanei? La lezione, ad
esempio, che non si può esercitare l’autorità come facevamo una volta, cioè in modo
“autoritario”, ma occorre tener conto della sensibilità dell’altro e battere più sulla strada
della persuasione che su quella della coercizione; oppure che le nostre decisioni,
comprese quelle finanziarie, esigono sempre trasparenza e capacità di rendere conto;
oppure ancora che oggi, con l’avvento della cultura digitale, dobbiamo imparare ad abitare
i luoghi virtuali, non per perdere la “realtà” (come accade sempre più spesso a giovani e
anche a meno giovani) ma per raggiungerla in modo nuovo? 7

7. Ripensando i nostri gruppi
Per dare, in conclusione, un po’ più di concretezza al discorso, vorrei proporre una
riflessione sui nostri gruppi ecclesiali: il gruppo catechisti, il gruppo Caritas, il gruppo
famiglie, il gruppo giovani, il gruppo della tale associazione o del tale movimento, senza
dimenticare quello che, in ogni parrocchie, dovrebbe essere il gruppo per eccellenza, il
Consiglio pastorale.
È, infatti, anzitutto in questi gangli vitali dell’attività pastorale che può e deve
gradualmente prendere corpo quel cambiamento di postura o di sguardo di cui abbiamo
parlato. I documenti licenziati finora dal Cammino sinodale 2021-24 (insieme a quelli del
Sinodo nazionale italiano), ci offrono in proposito alcuni suggerimenti, che possiamo di
nuovo raccogliere in tre punti. Trarremo libera ispirazione soprattutto da ciò che, intorno al
Consiglio pastorale, afferma l’Instrumentum laboris per la Seconda Sessione del Sinodo,
che appunto in questi giorni è oggetto di discussione da parte dei membri dell’Assemblea 8 .
1) Rendere sempre meno i nostri gruppi la “cricca” dei fedelissimi, che si occupano
rigorosamente di faccende intraecclesiali (processioni, messe, catechesi, feste patronali,
ecc.), e sempre più un osservatorio del/sul territorio, capace di dialogare con gli agenti

    sociali che non ci sono né antagonisti né estranei, quali scuola, centri culturali, realtà
    giovanili laiche, associazionismo politico e sindacale, enti no profit, ecc. In un tempo di
    crescente penuria presbiterale – la quale, ci domandiamo, è solo un problema da risolvere
    oppure una chance (un segno dei tempi?) per “costringerci” a rivalutare la soggettualità
    ecclesiale di tutti i battezzati? – è soprattutto ai fedeli laici che si chiede la disponibilità a
    quest’interlocuzione e a questa collaborazione.
    2) Sempre per “fare uscire” i gruppi parrocchiali da sagrestie anguste, potrebbe essere
    cosa buona assumere l’abitudine di coinvolgere nei nostri incontri e nei nostri cammini
    esponenti della società civile del territorio, anche e forse soprattutto non credenti, per
    imparare a guardarci con gli occhi degli altri. Potremmo forse scoprire tantissime cose su
    di noi che non sapevamo; esercitarci a parlare un linguaggio che sappia un po’ meno di
    “ecclesiastichese” e che molti giudicano spesso semplicemente incomprensibile;
    apprendere da loro – nella logica, prima evocata, di Gaudium et spes 44 – strategie
    magari più efficaci delle nostre per intercettare e prendersi cura dei giovani e delle
    famiglie, che sono ormai i grandi assenti dalle nostre aule ecclesiali e questo perché,
    evidentemente, fatichiamo a incontrare le loro strade.
    3) Trasformare i nostri gruppi in spazi di effettivo discernimento pastorale, e non solo di
    ratifica di decisioni già prese, di programmazione di eventi, per non dire di battibecchi tra
    noi. Il Cammino sinodale ha autorevolmente proposto, a questo riguardo, il metodo di
    ascendenza ignaziana della “conversazione nello Spirito”, che in questi ultimi anni ha
    conosciuto una grande diffusione. È un metodo in cui più che parlare si ascolta, e proprio
    questo è il primo passo del discernimento, al quale siamo purtroppo poco abituati. La
    conversazione nello Spirito prevede infatti che, su un determinato tema, ciascuno – in una
    clima di preghiera – esprima prima il proprio punto di vista (primo giro), segnali poi ciò che
    lo ha colpito di più nelle parole degli altri (secondo giro), perché alla fine tutti i partecipanti
    arrivino a individuare – magari con il coordinamento del presidente – gli aspetti di
    convergenza, su cui è possibile procedere a decisioni concrete, ed eventualmente anche
    di divergenza, su cui per il momento è meglio soprassedere per continuare a discernere
    (terzo giro).
    Ci domandiamo: sarebbe possibile avviare nelle nostre comunità qualche esperimento
    nella linea di questi suggerimenti (osservare di più ciò che accade fuori, sapere integrare
    al proprio interno voci “altre”, esercitarsi nell’arte di discernere insieme), certamente con
    l’elasticità richiesta dai casi concreti?

    Fiuggi 5 ottobre 2024
    Pasquale Bua

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